mercoledì 20 giugno 2012

Presentazione del volume "Le inquietudini della fede" con interviste a a Nocita, Scola, Ravasi, Scaraffia, Vecchioni e Natoli (stralci)

AA.VV, "Le inquietudini della fede", Marcianum Press, 2012


In un libro le risposte di due cardinali, una storica, un filosofo e un cantautore


Parliamo di fede


Giovedì 21 giugno, nella Sala conferenze dei Musei Vaticani, verrà presentato il libro Le inquietudini della fede (Venezia, Marcianum Press, 2012, pagine 104, euro 11) con interviste del regista Salvatore Nocita ai cardinali Angelo Scola, arcivescovo di Milano, e Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, alla storica Lucetta Scaraffia, al cantautore Roberto Vecchioni e al filosofo Salvatore Natoli. All'incontro -- che sarà introdotto da monsignor Franco Perazzolo, direttore del Dipartimento scienze umane del Pontificio Consiglio della Cultura, da Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani, e da Primo Santini, amministratore delegato del Fai Service -- interverranno monsignor Dario Edoardo Viganò, presidente della Fondazione Ente dello Spettacolo, e Fabrizio Palenzona, presidente del Fai Service, autori rispettivamente dell'introduzione e della postfazione al volume. Al termine verrà proiettato il trailer del film La strada di Paolo di Salvatore Nocita. Anticipiamo stralci delle interviste.


La profezia di Nietzsche


Risponde il cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano.


Eminenza, per l'uomo del duemila che cos'è il trascendente? Non dico come lo immagina, ma come lo vive?


Innanzitutto vorrei premettere che, quando introduciamo questa parola, trascendente, ci riferiamo a un dato che è proprio dell'uomo come tale, del cuore dell'uomo di ogni tempo. Ovviamente, la modalità con cui questo proprium viene percepito muta a seconda del clima culturale in cui l'uomo vive e agisce. Io credo che l'uomo di oggi sia chiamato a guardare fino in fondo ai tratti fondamentali dell'esperienza umana.


Il primo, il più importante, è la capacità dell'uomo di cogliere il senso della realtà: la realtà è intelligibile e chiede di essere ospitata dalla nostra intelligenza (...) Il secondo modo, che pure è decisivo ed è, in un certo senso, più decisivo del primo, è la relazione, il rapporto. Che cosa dice il sorriso di un bimbo alla mamma o il sorriso della mamma al bambino? Dice che c'è qualcosa che va oltre il proprio io. La relazione buona e positiva mi induce ad uscire da me e diventa, allo stesso tempo, decisiva e costitutiva per il mio benessere. L'essere in relazione è quindi il secondo modo costitutivo attraverso il quale io esco da me e vado verso il trascendente. C'è poi almeno un terzo modo, che è di capitale importanza, di cui incominciamo a renderci conto più chiaramente quando entriamo nella fase della maturità. È il modo legato alla percezione della nostra finitudine. Siamo capaci di infinito e tuttavia, quando agiamo, siamo sempre prigionieri della finitudine. L'uomo ha sempre dato espressione a questo paradosso che lo costituisce con una parola -- “salvezza” -- che è presente in tutte le religioni e che è come l'invocazione di essere liberati da questo limite che ha, soprattutto nella morte, la sua barriera principale. Sono capace di infinito, ma sono costretto alla finitudine. Chi mi libererà da questa condizione?


Questa è la salita verticale nella scoperta del trascendente. Dall'interno della concretezza della vita di tutti i giorni, l'uomo ha quindi mille segni per accorgersi del trascendente. In una cultura in cui la relazione buona non è coltivata, in cui si dice che la verità non esiste o si dice che la verità non è raggiungibile, questo sarà più difficile.


In una cultura in cui uno pensa di potersi salvare da solo o pensa di potersi accomodare tranquillamente nella finitudine, è inevitabile -- lo diceva il grande Nietzsche già più di un secolo fa -- che ci accontentiamo di “una vogliuzza per il giorno”, di “una vogliuzza per la notte”. Ci togliamo di dosso le speranze elevate e ne diventiamo facilmente calunniatori. Arriviamo a tarparci le ali.


Conoscere oltre la ragione


Risponde il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura.


Eminenza, potremmo definire il trascendente e il bisogno di trascendenza?


Il bisogno di trascendenza potrebbe essere reso attraverso un'immagine che, curiosamente, è lontana e, insieme, vicina all'universo culturale di Paolo: lontana, perché contenuta in un verso di Eschilo, il grande tragico greco; vicina perché l'Apostolo si esprime nell'ambito della cultura greca. Eschilo afferma che non possiamo raggiungere il cielo balzando verso l'alto, perché, qualsiasi salto noi compiamo, non riusciremo mai a toccare l'infinito e l'eterno. Da ciò deriva la necessità di una mano che si stenda dall'alto e ci raggiunga. La trascendenza è, sostanzialmente, proprio questa mano che viene dall'Oltre e dall'Altro rispetto all'orizzonte della nostra esistenza.


Sia pure con prospettive differenti, Paolo echeggerà questa voce pagana ricorrendo al termine greco cháris, il cui significato di partenza rende bene l'aspetto pratico, non solo teorico, di trascendenza. In greco cháris vuol dire «grazia». Se estendiamo l'attenzione all'interno della nostra lingua, scopriamo che cháris è alla base della parola «carità», ma anche di «carezza» e «caro», termini che, di loro natura, indicano l'amore. Quindi, quella mano che scende dall'“Oltre noi” e “dall'alto” sul nostro orizzonte non è soltanto una mano di imperturbabile potenza creatrice, ma si manifesta soprattutto come tocco di tenerezza e di amore.


Tuttavia assistiamo a un materialismo scientista che non solo rifiuta il termine, o la rappresentazione plastica da lei evocata con l'immagine del salto verso l'alto, ma rifiuta ogni necessità di soprannaturalità, qualunque traccia di trascendenza.


Percorriamo ancora una volta la via più semplice, quella dei simboli, perché anche in campo scientifico il linguaggio simbolico si rivela fondamentale. Un simbolo è preso dalla dichiarazione di un filosofo del secolo scorso, che ha dato un grande contributo alla filosofia della scienza, Ludwig Wittgenstein, autore del Tractatus logico-philosophicus, testo fondamentale, ma anche complesso ed estremamente arduo. Egli dice di essere partito con l'idea di dover descrivere la finitezza dell'uomo, paragonandolo a un'isola.


La scienza può definire l'isola-uomo attraverso il complesso delle sue cellule, la dimensione biologica, la struttura neuronale, la complessità del suo organismo, determinandone, così, gli elementi che possono divenire oggetto di un'analisi che va sotto l'ideale microscopio dell'esperimento scientifico. Quello che alla fine ho scoperto, continua Wittgenstein, erano le frontiere dell'oceano. È come se uno scienziato fosse un turista che percorre il perimetro di un'isola: guarda verso l'interno e vede quali sono le sue caratteristiche, le può descrivere, le può persino tracciare su una mappa geografica. Ma, se in quel momento amplia l'orizzonte del suo sguardo, si accorge che su questa isola-uomo battono le onde dell'oceano. Ciò sta a dimostrare che l'uomo è una realtà complessa perché sulla sua pelle -- come sulle rive dell'isola -- battono onde di cui la scienza non si occupa.


In un mondo che censura la morte


Risponde la storica Lucetta Scaraffia.


Passione e morte del Cristo. Come si può credere in un Dio che manda a morte suo figlio? La necessità salvifica è rappresentata da questo evento estremamente significante?


Certamente. È difficile credere, e nello stesso tempo è uno scandalo così misterioso che ci mette di fronte immediatamente al mistero divino. Non è che Dio sia sceso in terra solo per darci qualche carezza, qualche consiglio; è sceso in terra per stupirci in modo sconvolgente. La croce è la prova che era figlio di Dio, molto di più che le parabole, che la sua saggezza, molto di più che i miracoli. Questa era la vera prova che era figlio di Dio. Penso che questo lo colgano tutti, cioè che un evento così sconvolgente e scandaloso come l'assunzione della sofferenza dell'umanità sia un rovesciamento della storia dell'umanità stessa: la prova della divinità di Gesù.


A proposito del suo rapporto con le generazioni di oggi, come è possibile parlare di Risurrezione?


Se ne parla sempre meno. La Chiesa stessa ne parla sempre meno. Anche per il fatto che, in qualche modo, il Natale è diventato più importante della Pasqua. Addirittura nella vita della Chiesa, non in quella ufficiale naturalmente, parlo della vita percepita, della vita delle parrocchie, perché il Natale è un momento in cui bisogna essere buoni e a tutti piace essere buoni... Il Natale ha preso questo aspetto di bontà, che è facile da praticare e che soddisfa immediatamente: è meno misteriosa la nascita di un bambino che non la risurrezione. La risurrezione è effettivamente uno dei punti più difficili da credere, e bisogna continuamente ricordarci che la buona novella era proprio quella, cioè che il cristianesimo è nato con la notizia della risurrezione. Su questo dovremmo effettivamente riflettere e puntare molto di più, appunto nella nuova evangelizzazione, perché la cancellazione della risurrezione nella nostra cultura è parallela alla cancellazione della morte: se noi non parliamo più della morte, se non ci pensiamo più e se, addirittura, pensiamo che forse la eviteremo, della risurrezione ci importerà sempre meno.


E la misericordia? È un atto di fede cristiano, ma anche laico...


Sì, però è molto diversa. Nell'Ottocento è nata la filantropia e l'altruismo, e noi dobbiamo pensare che filantropia e altruismo siano due termini inventati dal filosofo francese Auguste Comte proprio per sostituire le parole misericordia e carità, che avevano un così profondo connotato cristiano. Nel mondo laico la filantropia è qualcosa che va da un essere umano a un altro: la filantropia e l'altruismo sono dei gesti generosi verso un altro. Mentre invece la carità e la misericordia comprendono al loro interno l'amore di Dio, cioè comprendono il fatto che io posso aiutare un'altra persona perché sono aiutata da Dio. Nella tradizione cristiana questo rapporto d'aiuto verso un altro essere umano è triangolare, cioè comprende il rapporto con Dio, e senza il rapporto con Dio noi non potremmo aiutare un altro essere umano. L'aiuto prende però tantissime facce, tantissimi aspetti, non è solo l'aiuto al bisognoso, è anche, come dicono le Beatitudini, il soccorrere chi soffre, il consolare il sofferente grazie al fatto che io sono consolato da Dio. Quindi è molto più ricco il rapporto di carità cristiana rispetto al rapporto laico di altruismo e di filantropia. Soprattutto la carità non chiede nulla in cambio perché chi dà la carità ha già il suo “cambio”, che è l'amore di Dio. Non ha bisogno di avere una ricompensa, mentre invece l'altruismo vuole continuamene sapere se l'aiuto che è stato dato è efficace o no.


Il male nel mondo. Perché? Questo oggi è un interrogativo ricorrente. Come un Dio misericordioso può permettere tutto questo male?


Penso che sia sempre stata una delle domande più ricorrenti. Per spiegare il male dobbiamo collegarlo alla libertà dell'essere umano: se non ci fosse il male, la possibilità di commettere il male, noi esseri umani non saremmo liberi.


Timore e rispetto


Risponde il cantautore Roberto Vecchioni.


Professore, quanto l'uomo del terzo millennio e anche la cultura popolare corrente sono sordi ai temi che riguardano il trascendente?


C'è modo e modo di interpretare il trascendente: spinti dalla paura, dal bisogno, dalla necessità o anche da fede intensa. In ogni caso, il trascendente ha una valenza fondamentale e sublima anche le piccole azioni perché dà loro un significato. Il tema è platonico: tutto quello che facciamo qui è apparenza, è per lo più inganno, appartiene all'attimo, al momento; se non ha un rinvio a qualche cosa di più grande, rimane praticamente sullo stesso piano della vita delle formiche, delle termiti e non credo che questo all'uomo sia mai venuto in mente, nemmeno all'uomo del terzo millennio.


Semmai il problema è il tempo. Come inseriamo questo concetto del trascendente nel breve arco di tempo che abbiamo per considerarlo? Il tempo non ci basta mai, non ci basta più, con tutto quello che abbiamo da fare, da pensare e con la paura di non riuscire a fare tutto. Quanto tempo ci rimane per pensare a questo “di poi”, a questo “oltre” che è un “di poi” che ci sta dinanzi anche adesso e che non deve per forza trovarsi dopo la morte? Il trascendente ce l'abbiamo vicino a noi anche tutti i giorni: è il vero significato di quello che stiamo pensando, è il vero significato della metafora che è la vita. Noi diamo sempre alla vita un significato piuttosto reale ma c'è un simbolo dietro a tutto quello che facciamo, anche alle azioni più scontate, e questo ci dice che noi uomini siamo comunque portati a questo secondo significato della vita, che sarà probabilmente quello più importante e l'unico che conta.


Ci ricordiamo tutti e due di un certo signore che ha detto timor fecit Deum. Quanto di questo timore è ancora presente?


Innanzi tutto «timore» è una traduzione abbastanza anomala perché in realtà la parola è timè che è greca e significa non soltanto timore ma rispetto, onore come fondamento; quindi timor di Dio non è paura di Dio, è qualche cosa di molto più bello e più preciso: è un aidòs, una vergogna davanti a Dio perché noi siamo così piccoli e meschini che dobbiamo comunque ascoltare la sua parola ed essere pronti anche alle sue indicazioni. Nello stesso tempo siamo come messi di fronte a uno che richiama all'ordine. Credo tuttavia che oggi il mondo sia pervaso da uno strano menefreghismo che non contraddice quello che ho detto prima perché il senso del trascendente esiste lo stesso, anche se non c'è più quella ricerca di una volta, quel protendersi a Dio che era molto forte sia negli intellettuali che nella gente, nel pensare popolare. Responsabile di tutto questo è sempre il tempo: lo sviluppo della civiltà, l'inurbamento, lo spazio, il lavoro, la fatica... al punto che Dio o lo consideriamo come qualche cosa di assolutamente altro al quale soltanto fare sacrifici pregando che ce la mandi buona e ci faccia avere il lavoro oppure non lo consideriamo affatto e a questo punto, con i tempi che corrono, la cosiddetta timè di Dio, quindi in un certo senso il rispetto e l'onore dovuto a Dio, sta venendo meno anche se non in tutti i ceti e non in tutte le età. Perché ci sono anche grandi manifestazioni di timor di Dio e credo che questa sia una delle virtù più giuste; è molto biblica come virtù.


Il dialogo interrotto della modernità


Risponde il filosofo Salvatore Natoli.


Professor Natoli, l'uomo del 2000 qualche volta pensa anche al trascendente. Ma che cos'è il trascendente?


Che l'uomo pensi al trascendente è qualcosa di discutibile, da chiarire. Direi che, in alcuni casi, alcuni uomini, non tutti (o anche molti, ma solo in certi momenti), hanno il senso del mistero che è cosa diversa dal trascendente perché il senso del mistero vuol dire che, in fondo, quello che ci sta attorno, il modo di svolgersi del mondo, l'andatura ordinaria delle cose, produce delle domande che poi sono le domande di sempre sul senso della vita, sul proprio destino. Nei momenti di infelicità, di dolore, uno si chiede: «Ma, insomma, che senso ha questa esistenza?». È la domanda che apre sul mistero, la domanda che ha attraversato la storia dell'umanità.


Nel corso della storia tutti gli uomini hanno cercato di rispondere, per quanto possibile, a questo dilemma che la vita presenta, ma non sempre si è trattato di una risposta con riferimento alla trascendenza. Diciamo quindi che, nel corso della sua esistenza, l'uomo si trova spesso al buio, in situazioni oscure, in cui cerca una luce e che, in questo senso, c'è una predisposizione al mistero. Ma la trascendenza è qualcosa di diverso da questo, soprattutto nella tradizione che viene dal cristianesimo e dal giudaismo; è rivolgersi a un “tu”, parlare con qualcuno. Già l'umanità antica, arcaica, lo faceva: invocava gli dei. Nella tradizione cristiana e, prima, giudaica, c'è stata una variante non piccola: non sono stati gli uomini che, dinanzi alle dimensioni enigmatiche dell'esistenza, si sono rivolti agli dei, ma, almeno se prestiamo ascolto alla storia delle religioni, è stato Dio che ha parlato agli uomini, che li ha chiamati. Non a caso nella Bibbia si parla di elezione. Il rapporto di trascendenza è dunque un rapporto io-tu-popolo-Dio ed è una cosa diversa dall'esperienza del mistero. Nella nostra società non è venuto meno il senso del mistero -- nel buio della vita si cerca una luce, qualcuno a cui rivolgersi -- ma certamente è divenuto problematico quel referente preciso che ci viene dalla tradizione giudaica e cristiana ossia quel rapporto io-tu, in termini di trascendenza, quel rapportarsi a un Lui che, per primo, ha parlato e ci ha chiamato. Se per trascendenza intendiamo questo, ritengo che, se non si è dissolta, si è di molto affievolita. Non è invece venuta meno l'esperienza dell'enigma o l'enigmaticità stessa dell'esistenza.


E certo materialismo scientista sembrerebbe andare in questa direzione fino, addirittura, ad eliminare anche l'enigma.


Ad andare in questa direzione è il naturalismo scientista, non certo la scienza. Terrei distinta la pratica scientifica dalla sua ideologia. La scienza va avanti per prova ed errore: procede per confutazioni -- o, se si vuole, per conferme e verifiche parziali -- non elimina il dubbio. La scienza è consapevole che quello che sa è pochissimo rispetto a quello che si può sapere e che perciò il suo sapere è sempre limitato e parziale. L'uomo, tramite la scienza, riuscirà finalmente a liberarsi di tutti i suoi problemi? (...) La scienza, con i suoi successi, dà l'illusione che tutto questo sia possibile anche se di fatto, a fronte di problemi che risolve, altri ne pone. Direi di più: la scienza nel suo procedere è misura della finitezza perché se, per ipotesi, attingessimo l'infinito, la scienza finirebbe perché verrebbe meno l'oltre da esplorare.


(©L'Osservatore Romano 20 giugno 2012)


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